Laura è una giovane logopedista e a febbraio 2020 è partita per un’esperienza di tirocinio presso la clinica “Speech Care” di Lisbona. Il percorso lavorativo sarebbe dovuto durare fino a giugno, ma il Covid19 l’ha costretta a rientrare.
Mentre il virus si diffondeva subdolo per le vie del Bel paese, Laura si trovava in Portogallo a svolgere più o meno serenamente il suo lavoro in attesa di delucidazioni sul da farsi.
“Mi trovavo nella stanza dove solitamente svolgevo la terapia insieme a Barbara, una collega, la quale si era assentata un momento per chiamare il paziente successivo, un bambino balbuziente accompagnato dal padre. L’attesa si era fatta strana, più lunga del solito… ci aspettava una terapia normalissima, ma non capivo il perché il bambino tardasse così tanto ad entrare. Mentre mi perdevo nelle mie congetture mentali, Barbara si presentò nuovamente nella stanza con un sorriso alquanto nervoso e mi spiegò che aveva avuto problemi a convincere il padre a procedere con la terapia in quanto sono italiana.
La logopedista gli aveva spiegato che ero a Lisbona già da un mese e che quindi non doveva preoccuparsi di eventuali contagi da Coronavirus, ma la diffidenza e il timore del padre si erano rivelati muri difficili da abbattere.”
Che cosa si prova a sentirsi discriminati per la prima volta Laura?
“In quel preciso momento non riuscivo nemmeno a capire se fosse la realtà, la mia collega non si esprimeva fluentemente in inglese, quindi ho sperato per qualche attimo di aver frainteso le sue parole poi, quando ho avvertito come un pugno la verità di quel discorso, mi sono sentita pervadere la testa e il corpo da un’infinità di emozioni contrastanti: mi veniva da piangere, ho cercato con tutte le mie forze di contenermi davanti a Barbara, mi sono sentita a disagio, fuori luogo, nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Avrei voluto solo risvegliarmi da quell’incubo e rendermi conto che nulla di tutto ciò era accaduto.
In seguito, ho raccontato l’episodio spiacevole alla direttrice del centro, la quale mi ha fatto notare che lei, volutamente, non comunicava mai ai pazienti la mia provenienza in quanto non voleva spaventarli.”
E quindi? L’incubo era realtà?
“Esattamente… il disagio sempre più forte, la rabbia mi investiva i pensieri, avrei voluto strapparmi via quel nodo nella gola e quel malessere nello stomaco che mi facevano sentire sbagliata.
Ho sperimentato per la prima volta il significato di non essere ben voluta a causa della mia razza e forse, proprio per questo, alle emozioni negative si sono affiancati anche sentimenti di altro tipo: ogni centimetro del mio corpo e della mia mente ha realizzato che cosa significa essere bloccati dentro le barriere del pregiudizio, ogni parte di me ha capito quanto fa male essere la causa della paura altrui.
Una lezione dal valore a dir poco smisurato: la vita mi ha preso a schiaffi, mi ha fatto svegliare bruscamente spazzando via anche il più piccolo dei preconcetti.
Ho indossato i panni di chi l’incubo lo vive quotidianamente, in ogni piccolo gesto, in ogni azione di routine, in ogni sguardo, screzio, difficoltà, lacrima.
Ho indossato questi panni per così poco e mi è servito così tanto.”
Quindi, dopo questo episodio, dicevi ai tuoi pazienti che sei italiana?
“Il centro mi ha chiesto di non riferire la mia nazionalità: mi sono sentita arrabbiata e fortunata.”

In che senso?
“Già, contrastante, eppure è così: era totalmente ingiusto non poter dire apertamente che sono italiana, in qualche modo mi sentivo in gabbia per ragioni che non dipendevano da me, ma dall’altro canto mi reputavo anche fortunata perché da italiana quale sono non possiedo dei tratti che smascherino la mia nazionalità a colpo d’occhio. Il non essere scoperta equivaleva a dire che nessuno avrebbe avuto paura di me e la cosa mi faceva sentire più sollevata, insomma, strano a dirsi, ma mi consideravo fortunata. Le persone di colore e gli asiatici sono subito riconoscibili, noi invece ci confondiamo bene nella mischia.”
E se fossi stata tu la madre del paziente?
“Questo è stato il contrasto che ho vissuto subito dopo. Continuavo a ripetermi: prova tu a stare nei panni di quel padre! Prova tu a fare il genitore quando tutti parlano di pandemia!
Forse anche io avrei reagito così, anche io avrei avuto paura e non sarei stata in grado di gestire la situazione in maniera razionale, proprio perché quando di mezzo c’è la salute di un figlio, nulla è più razionale.
Se mi dovesse succedere in futuro, nelle vesti di madre, probabilmente sarei più pronta a governare la paura, ma solamente perché, ad oggi, la vita mi ha riservato questa lezione che mi ha segnato e insegnato profondamente.”
E tu, ti sei mai sentito discriminato?
Un ragazzo che conosco ha avuto lo stesso trattamento a Madrid, città nella quale vive da almeno 10 anni.
Il fatto di essere italiano lo rendeva automaticamente infetto.
Per quanto illogica, posso capire la paura iniziale delle persone, che spinge verso comportamenti irrazionali e difensivi di fronte a una pandemia mondiale.
Come è giustamente scritto nell’articolo, purtroppo assistiamo tutti i giorni a paure di varia natura che si trasformano in pregiudizi assurdi.
Sinceramente però mi ha deluso leggere la reazione del centro. Da clinica medica specializzata, invece di nascondere a mio parere aveva il dovere etico e scientifico di spiegare, informare, insegnare ai pazienti e ai loro familiari che le loro paure erano infondate.
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Sono pienamente d’accordo sull’ultimo punto: mancanza di informazione, educazione e trasparenza sono i mali alla base della nostra società attuale.
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